Articoli su Giovanni Papini

1924


Ettore Allodoli

Il ragazzo Papini

Pubblicato in: Lo spettatore italiano, fasc. 8-9, pp. 89-106.
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Data: 15 agosto - 1° settembre 1924



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C'è un ragazzo nella mia vita che non posso dimenticare e che mi ritorna insistente davanti, alle varie svoltate della via del Ricordo.
   Mi sta lì, lungo, pallido, serio, motteggiatore, terribile, nelle tappe di sosta e di respiro dello spirito che, pur correndo avanti, si volta tanto volentieri indietro.
   Questo Ragazzo è di per sè una vita, un fatto insopprimibile, che io vedo e amo, tutto compiuto e concluso, quasi da un'altra cosa de quello che poi questo ragazzo è andato divenendo, nel corso della sua esistenza così intensamente drammatica, dal punto di vista spirituale.
   Se questo ragazzo non fosse poi diventato, nella sua evoluzione ad Uomo, il famoso scrittore che si chiama Giovanni Papini, l'autore di quei tre libri di tanta risonanza dinamica che sono Un Uomo Finito nel romanzo, Stroncature nella critica, La Storia di Cristo nel pensiero religioso e sociale, se questo Ragazzo fosse morto sui suoi quindici o sedici anni, o vissuto tranquillamente attendendo ai registri di cassa nel paterno negozio di mobili in Borgo degli Albizi o avesse fatto il maestro elementare servendosi del suo bravo diploma normale preso alle scuole di via S. Gallo o fosse diventato titolare d'una cattedra di filologia romanza per le sue straordinarie conoscenze di letterature neolatine


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accresciute magari da viaggi di perfezionamento all'estero che gli avessero permesso di sfruttare l'articolo regolamentare delle eccezionali benemerenze di cultura e fosse così divenuto veramente un Eroe del sessantanove (questo era fino a poco tempo fa il fatidico numero dell'articolo), ebbene, questo Ragazzo sarebbe restato ugualmente il Ragazzo che fu ed è, il Ragazzo che ha colpito così fortemente nella sua infanzia e nella sua prima adolescenza tutti quelli che lo conobbero.
   Nessuno l'ha conosciuto più intimamente di me.
   Papini ha scritto, in principio del suo romanzo lirico: «Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza», ma i primi capitoli dell'Uomo Finito non vanno presi come un documento autobiografico: sono un'opera di fantasia e di arte, fortemente radicata nella realtà esteriore; ma diretti a un fine e a una sintesi che scoppia soltanto nelle ultime pagine.
   Una parte Papini ha taciuta della sua fanciullezza pensosa: una parte che direi di gioco e di chiasso, ma che anch'esso fu un gioco e un chiasso tutto suo: tutto pensiero e studio: mania di fare da piccolo quello che gli altri facevano da grandi, e farlo già in maniera che fosse nuova e non moda servile. Tutta una parte questa a cui il suo spirito poi, guardando dall'alto dette forse come un'occhiata di disprezzo, ma che illumina intera la figura del Ragazzo quale fu realmente.
   Quest'infanzia senza balocchi, senza divertimenti, senza amori o letizie o spensieratezze doveva avere uno sfogo: lo ebbe, nel considerare lo studio extra scuola, lo studio libero come uno spasso di nuovo genere, sotto forme pittoresche di puerile serietà.
   Quello ché per gli altri erano le scatole di tinte, i cavallini col fischio di dietro, la stiacciata del Melini o i pasticcini di riso del Bordi in piazza San Firenze,


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furono, non tanto un foglio stampa, un giornale, una dispensa, un libruccio usato da due soldi, ma addirittura il creare ex-novo un'avventura, un libruccio, un giornale, scrivendolo da sè.
   Mentre gli altri andavano in Piazza Santa Croce, o al Giardino d'Azeglio o a quello Torrigiani o ai baracconi del Parterre o dei Pratoni della Zecca, Papini, che pure ci andava anche lui e osservava e sapeva la vita della Firenze liscia onesta e quieta nelle sue lastre larghe e polite, Papini scriveva romanzi, pensava giornali e riviste, cercava compagni alle imprese letterarie.
   Il ragazzo rospo, scontroso, malinconico era, in questo giuoco di serietà, altero, vivo, forte. Ripensandolo poi, questa sua fanciullezza gli è apparsa una solitudine smorta e selvatica: ma egli la visse allora con fervore, con ansiosa ricerca del nuovo, e di gioie spirituali che a un fanciullo sono per solito ignote o nascoste, e, in più, con l'ebbrezza di sapere che faceva una cosa che gli altri non facevano.
   E' stato scritto in proposito: «Mi vedo un giorno di primavera, seduto con te in un giardino pubblico, non saprei dir più quale precisamente, e guardiamo intorno a noi il chiasso sfrenato di tutti gli altri ragazzi che corrono, strillano e s'inseguono: ci son tra loro giovinette dai capelli sciolti e dallo sguardo sfavillante, fanciulli che s'incamminano verso la giovinezza. Sento la tua voce sprezzante e sicura che compiange quella pura animalità istintiva, quella spensieratezza troppo serena di vita. Nessuno di costoro — dicevi — ha letto un libro che non sia il testo di scuola» 1. Il primo compagno a cui Papini deve avere affidato qualche cosa dei suoi puerili tentativi, fu, forse, suo


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padre. Uomo d'ingegno, di poche parole, un po' cupo, che era in quella corrente di idee mazziniane-repubblicane-popolane così vive a Firenze in quel tempo e che avevano il loro centro nella Fratellanza Artigiana. Questa era un ritrovo dell'artigianato medio-borghese, fanatico della tradizione democratica e che si commoveva fino alle lacrime non solo per Garibaldi ma anche per Francesco Ferrucci. Gran parte di quelle vane e grandiose idee di cui è accennato il tragico e solenne svolgimento nell'Uomo Finito deve essere stata oggetto di suggestionante discussione tra il piccolo e il padre che fiorentinescamente alternava, con le cure del suo modesto magazzino di mobilia, il gusto delle letture razionalistiche e democratiche e della filantropia umanitaria frankliniana. (la madre, fresca e vivace, con la sua bonaria mobilità, ha alleggerito e aggraziato la sostanziosa formazione psichica del ragazzo Papini).
   Mentre nel suo spirito covavano i germi d'un futuro svolgimento interiore e si accumulavano quelle sconfortanti esperienze di cui egli poi fu il clinico e il poeta, la sua anima fanciullesca aveva bisogno di fare un gioco e uno spasso che fossero come un riflesso di quella vita che gli ferveva dentro, all'età in cui i coetanei compilano, per lo più, balbettando,, una poesiola, rubano in cucina lo zucchero e ondeggiano fra gli scapaccioni del babbo e le sculacciate della mamma, o viceversa.
   Il ragazzo Papini ha il suo sviluppo tra il 1891 e il 1896-1898: e lo sfondo in cui si muove questa figura è il più bigio e meschino che si possa immaginare. In questo bigio e in questa meschinità antieroica le arditezze di pensiero del fanciullo assumono per contrasto un valore che pare simbolico.
   Tra il 1891 e il 1896 c'era nella nostra Firenze l'afa e la tranquillità che s'accompagnano alla rinunzia, alla pigrizia e alla sconfitta: c'era la calma entro cui maturano


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i pensieri di azione e di reazione: c'era il sonno della natura che si prepara dormendo allo scoppio della sua inebriante primavera.
   Stavano terminando gli ultimi effetti dello sforzo troppo grande che la città aveva fatto per essere la capitale della nazione: c'era il disfacimento e la disgregazione di quelle famiglie che i travolgimenti e gli adattamenti di nuove situazioni avevano impoverite: la vita passava, moriva giorno per giorno, così.
   Correvano i tempi in cui fuori d'Italia «era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì come Dante, a dir Terra come Colombo, Avanti come Garibaldi. Dante? ma voi siete un popolo d'analfabeti. Colombo? ma la vostra è l'onorata società della camorra. Garibaldi? ma il vostro esercito s'è fatto vincere da africani scalzi. Viva Menelik!».
   (Già, questi tempi correvano: ma la sera tra via dell'Anguillara, e via dei Leoni, via Vinegia, borgo dei Greci, nel buio incerto e torbido di quelle straducce, fangose o afose, i beceri fiorentini fischiettando, fieramente, cantavano: «O Menelicche! — le palle son di piombo e non pasticche! o Barattieri, - 'un ti fidare di que' cosi neri!»).
   La vita abitudinaria del Ragazzo si svolgeva nella parte più bigia della vecchia gloriosa città: tra il Bargello e il Palazzo della Signoria, tra Santa Croce e il Palazzo Non Finito: le case in cui i suoi abitavano erano ora in Via Ghibellina, ora in Borgo degli Albizzi, sempre all'ultimo piano, a cui si arrivava per scale dirupate, lunghe, faticose, coi gradini consunti e vecchi.
   La scuola elementare era in Via dei Magazzini, piccola strada con le case alte alte che pare si uniscano sopra le nostre teste per nasconderci il cielo.
   A due passi, il Teatro della Quarconia, più modernamente detto Nazionale, dove Stenterello ogni sera


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faceva la sua comparsa nei drammi popolari divisi in atti e quadri e preceduti da Prologhi, con l'attrattiva di un combattimento ad arma bianca dei Tramagnini: più in là la casa di Dante, la Pretura schiamazzante e piena di figuri, di pidocchiosi e di cavalocchi: dalle strade vicine, ove c'erano depositi di grossisti, veniva un odore di baccalà secco che entrava dappertutto e pareva restasse appiccicato alle vesti.
   Dentro quest'aria grassa, sotto questo pigro cielo, «vidi un fanciullo pallido e dimesso».

   Era l'anno della quinta "elementare: e c'era un maestro con una bella barba, dalla voce grave e armoniosa, un maestro che faceva anche da Direttore, il Chiara: ci erano tanti altri ragazzi, tutti o quasi perduti dalla memoria: e che non ho più incontrato nè per le strade di Firenze nè per le vie della vita. (Della stessa classe, ma d'altra sezione, mi ricordo solo di Roberto Ciabatti, autore di un noto manuale di stenografia e ora Direttore d'una Filiale della Banca Commerciale Italiana, alla Spezia). C'era già lì il Ragazzo i cui componimenti colpivano di ammirazione il maestro e i condiscepoli e che erano di un assoluto stacco con la mentalità consueta dei soliti ragazzi. Egli ripeteva la Va non so più per via di quale materia di seconda importanza.
   Il Ragazzo non aveva compagni a cui desse la sua amicizia, o la sua protezione o a cui si svelasse. Aveva altri centri però qua e là di amicizie in cui mostrava già la sua superiorità: o in quello o negli anni successivi egli aveva fondato una Società di risparmio e di iniziative alla Franklin di cui deve ricordare qualche cosa il comm. Giovanni Poggi, Direttore delle Gallerie di Firenze, e parente di Papini.
   Ma con un compagno trovato in quinta elementare il Ragazzo si legò per un istintivo bisogno di quel gioco


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puerilmento serio che gli doveva servire di sfogo spirituale, e per parecchi anni durò il fanciullesco sodalizio: anche quando Papini dalle elementari andò alle tecniche e poi alle normali, e l'altro al ginnasio e al liceo.
   Il Ragazzo mostrò allora al compagno paffutello e desideroso di sapere, se non quell'intimo senso di grandezza sconfortante che forse ancora non era venuta alla superficie della coscienza e di cui parla la 1. parte dell'Uomo Finito, tutta la gioia che la sete di conoscere e di creare può offrire, tutta la soddisfazione di staccarsi dagli altri e dal gregge comune degli svogliati e degli sgobboni, e insegnò che c'erano divertimenti più nobili che pigliare un'indigestione di pasticcini o tirare la treccia alle bambine dalle gambe rotonde.

   Con una penna, un po' d'inchiostro e qualche foglio di carta si possono scrivere romanzi e novelle che non siano un copiaticcio di Verne o di Mayne Read e in cui ci siano cose cavate dalla propria testa e che facciano meravigliare i lettori, anche se questi non esistono.
   Uno di questi romanzi eccolo: non ha titolo. (Il titolo, si sa, è una cosa difficile a trovare, anche per un ragazzo di undici anni). Sono 45 paginette delle quali qualcuna trascritta dal compagno di Papini.
   Il capitolo 1. racconta come fu trovato un cadavere nella miniera di Morgantow: come l'allarme che ne seguì fu enorme, e come i sospetti si addensino subito sur un sottocapo John Forster il quale è improvvisamente scomparso il giorno stesso del delitto. Ma Forster era fuggito per ben altra ragione: e questa ce la svela il capitolo 3° scritto, come parecchi altri, in quella calligrafia papiniana, allora un po' più rotondetta e timida di quella d'ora, ma sostanzialmente molto simile.
   Forster segue docilmente il detective, e vien messo in prigione.


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Nel capitolo 5° egli prende la fuga attraverso una fogna in cui c'era poca acqua. Arriva in un paese, prende un treno e fugge lontano.
   Il seguente capitolo narra quale fosse la verità in questo misterioso avvenimento: un prepotente, dinanzi a cui tutti tremavano, aveva ucciso, per vendetta e per gelosia di donne, il minatore di cui s'era trovato il cadavere. Intanto Forster s'imbarca a New York sul Lincoln, un bel bastimento, con una macchina della forza di 10,000 cavalli. Sbarca alle rive del Tamigi. Si nasconde in un alberguccio di Londra: ma dopo tre giorni non resiste più. «Un pallido sole si era fatto strada fra le brume pallide e sembrava quasi invitasse a respirare un po' d'aria libera». Si reca alla sponda del fiume. Viene riconosciuto de due poliziotti americani che gli sono alle calcagna: fugge di nuovo: la sera «il nostro John Forster, ex-ispettore delle miniere di Morgantow, si trovava a dormire in un sudicio albergo di una stretta via di Calais!». Succede un inseguimento per tutta la terra: Forster disperato arriva a S. Francisco dopo aver visto mari selvaggi e terribili. «Il 21 eran passate a sud le isole Miedar, poi dirigendosi verso Sud Est la nave imboccò il canale di Sumatra, Malacca fu passata il 22, il 26 era già passato il Capo. Il mar della Cina si stendeva innanzi: un mare grosso e cattivo e che diede de fare e M. Larderel (il comandante)... Finalmente dopo 36 giorni di navigazione, Scianghai apparve, col suo porto variegato e popolato: col suo ammasso di yamens, con i suoi battelli, i fiori, e la sua folla di mandarini, di giocolieri e di mercanti».
   A S. Francisco, Forster, esauriti tutti i mezzi per trovare un impiego e nascondersi, si dà per vinto. Egli si consegna ai poliziotti che lo inseguono: ma, oh meraviglia, invece di sentirsi dichiarare in arresto, una delle guardie gli annunzia che il vero assassino era


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stato scoperto e che un suo zio gli ha lasciato un'eredità in titoli sulla San Francisco's Bank ammontante a 22 milioni di dollari, più un'acciaieria a Chicago e un Hotel a New York!
   In nessun romanzo di Verne c'era un'ironia intenzionale e spontanea più acuta di questa. Chi si credeva il più disperato degli uomini trova a un tratto, la ricchezza; la pace, l'amore. Perchè anche, si capisce, Miss Lucy l'aspettava «a braccia aperte» «Il segreto era rimasto tra padre e figlia».

   E la sorpresa paradossale che la vita può procurare era più che mai descritta in un altro romanzo che il vivace Ragazzo non stese ma che aveva tutto in mente per stendere. La trama era questa.
   Aveva letto in un giornale che certi animaletti microscopici rodono carte e documenti in modo così invisibile che quelle carte e quei documenti rimangono apparentemente intatti, ma basta toccarli leggermente perchè cadano in minutissima polvere. Su questo spunto immaginò le avventure di alcuni eredi d'una enorme sostanza, ciascuno dei quali corre mezzo mondo per arrivare a impossessarsi, per il primo, d'una preziosa cassetta contenente il documento che dà diritto a riscotere il patrimonio. E ciascuno si affanna ad arrivare il primo e a impedire il viaggio dell'altro e commette delitti e ignominie, finchè uno di essi lacero e sanguinoso mette le mani sulla carta famosa. Ma questa, appena toccata, si polverizza e tutto finisce. Reminiscenze di Verne, dell'Ebreo Errante di Sue apparivano certo in queste creazioni del Ragazzo, ma non si può negare che in esse vivesse una fantasia propria. E non c'erano da noi i romanzi di Wells, ancora.
   Quest'attività scherzosa, fanciullesca, questi balocchi dell'intelligenza egli svelava al compagno, mentre teneva per sè il segreto che gli diventò poi, a distanza,


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così grande e insopportabile da manifestarlo in commossa rievocazione lirica. Quando, dopo le Elementari, uno imboccò la via classica e l'altro quella tecnica, i due si ritrovarono, sul terreno del Latino, uno come scolaro e l'altro come maestro. Rimane un quaderno di frasi in cui Papini studiò le prime regole della grammatica latina e tradusse le prime favolette di Fedro.
   Nelle scuole medie il Papini andò affinando la sua cultura letteraria già molto vasta: e trovò anche un fervido incoraggiamento nel suo professore d'italiano, Diego Garoglio: ma nei primi tempi egli si dette a quella mania erudita di cui ha parlato egli stesso: e sopratutto, a continuare il gioco fanciullesco a cui si dedicava, quasi per un di più, col compagno, più giovino di lui d'un anno. Egli prese ora per sua attività lo studio intenso della letteratura spagnola.

   Questa esuberanza di sapere, questo bisogno di fare il chiasso giocando alla Letteratura si espressero in una serie di giornali manoscritti dai quali si rivela compiutamente il volto del Ragazzo Papini quale io intendo descrivere in questo rapido studio. Non faccio che sfiorare l'argomento e accennerò ai tre giornali manoscritti che portano il titolo di La Rivista, settimanale, Sapientia giornale mensile, Il Giglio, rivista supplemento di Sapientia. I collaboratori erano due, ma figuravano moltiplicati con infiniti nomi: i lettori erano pure due, perchè il giornale restò un segreto per tutti sempre, ma apparivano nell'immaginazione dei compilatori un numero grandissimo.
   Papini fa nella Rivista che egli dirige la cronaca politica. In uno degli ultimi numeri del luglio 1896, a proposito della guerra di Cuba, dice: «Il telegrafo spagnuolo uccide tutti i santi giorni per lo meno sessanta insorti mentre i telegrammi di New York (ai


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quali, per dir la verità, dò più fede) ci danno l'esercitò spagnolo come decimato dalla febbre gialla. Quid est veritas? disse Pilato. Chi vivrà vedrà». Il giornale era illustrato con ritagli di figure tolte dai giornali veri e sopratutto dall'Illustrazione Popolare: una volta, fu pubblicato un articolo sui Viaggiatori affricani e si perderono le fotografie di Matteucci e Cerchi: il numero seguente diceva: «Fra i ritratti dei Viaggiatori affricani dovevano andare anche quelli del Matteucci e del Cecchi: un guasto nella macchina ce lo ha impedito disgraziatamente. Assicuriamo però i nostri lettori che da ora innanzi questi inconvenienti non si verificheranno più».
   In altro numero (26 luglio 1896) l'articolista politico dice tra l'altro:
   «In Candia i massacri sono incominciati con più furore di prima e le cosidette Potenze fanno la solita commedia dell'Armenia mandando le corazzate a vedere e si affannano a comunicare note diplomatiche. Per finire un po' meno melanconicamente sfogliamo la cronaca rosa. Il principe Orléans, quel rompicollo che tutti conoscono, ha impalmato la principessa Maud, nipote della regina d'Inghilterra».
   Era morto Edmondo de Goncourt. Sotto lo pseudonimo di Leonardo da Riva, il Ragazzo scrive questo articolo necrologico interessante:
   «Anche il secondo è morto, Edmondo che ha seguito nella tomba il suo fratello, il dolcissimo Giulio. Curiosi questi Goncourt! Facevano scuola a parte avevano idee a parte, uno scrivere raffinato ove era spinta all'eccesso la ricercatezza del Flaubert, una lingua a parte, a proposito della quale un illustre critico francese diceva: E' incomprensibile, quindi non è francese.
   Erano nevromani, nervosi, sensibili, impressionabili all'eccesso: tutti i loro romanzi si fondano sui sottili affanni dell'anima, sui dolori indefiniti: i loro personaggi hanno calici simpatici e antipatici, sedie lugubri



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e serene e son capaci di dar questa definizione stravagante di un quadro: L'oriente della poesia di Child Harold e di Don Juan in molto sole alla Rembrandt.
   Senza ideali, senza grattacapi di politica o di affari dipingevano il mondo come lo vedevano a traverso la loro sensibilità morbosa: odiavano il classico e l'accademico e lodavano La Bruyère: contraddizione e fenomeni della vergognosa decandenza in cui è piombata oggi l'Europa e la Francia in ispecie. Pure essi esercitarono sulla letteratura contemporanea una grande influenza, il che si deve al sapore di originalità di questi eremiti del pensiero e socialisti dello stile
».
   Nel numero del 2 agosto l'articolo di fondo, a firma direttoriale, porta una sfuriata contro i soliti vaniloqui socialisti: «Mentre aspettiamo la liberazione di tutti gli altri prigionieri (dopo la missione del maggiore Nerazzini presso il Negus), i socialisti proseguono a far congressi dappertutto. A Lilla però non l'hanno finito perchè i cittadini inviperiti da non so che, hanno bastonato e fischiato quei poveri rappresentanti del partito dell'avvenire».
   Il giornale era fatto bene, francamente, e interessante anche oggi, a rileggerlo, pur dopo tanti progressi che ha fatto la stampa!... Aveva la sua rubrica di giuochi, la sua nota di varietà, le sue barzellette: eccone qualcuna, delle quali però non si garantisce proprio la originalità:

   «Il giudizio di Paride. Una signora presenta una mela a un suo bambino in presenza di altre due sue amiche. E dice: — Dà questa mela a quella di noi che ti sembra la più bella. Il ragazzino guarda un momento le tre donne... e mangia la mela».

   «L'amico di casa fa saltare sulle sue ginocchia il piccolo Baby.


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   — Ti diverti eh, biricchino?
   — Sì, ma mi divertirei molto di più se saltassi sopra un somaro vero».

   «Si diceva alla presenza della piccola Bebè che il signor Tale era partito abbandonando la moglie. Oh, povera donna — esclama Bebè. Allora, se il buon Dio le manda dei figlioli, non avranno più padre».

   La copertina era di fogli gialli, con annunzi vari dove sono date come imminenti varie pubblicazioni: per es.: «Storia dell'Egitto antico», elegante volumetto di 44 pagine con incisioni che costerà solo 20 centesimi. «Da Amba Alagi al Processo Baratieri». Altrove: «Sono uscite riunite sotto coperti, le prime due dispense del Lessico Universale di G. Papini». (cfr: L'Uomo Finito. Capitolo IV). E poi: Al prossimo numero cominceremo in appendice un lavoro fortissimo di G. Papini: Storia della letteratura Indiana».
   La testata della Rivista, era scritta accuratamente in ronde, e nel numero del 26 luglio 1896 c'era un interessante articolo politico del Direttore, ricopiato dall'altro redattore, in cui si palesa un sentimento di insofferenza per la decadenza morale della patria. Fra l'altro: «L'avvenimento culminante della quindicina, quello che ha invaso d'incisioni e di ricordi patriottici i giornali e le riviste del bello italo Regno è stato il monumento a Vittorio, a Milano. Di questa statua si dice mirabilia, è alta tanti e tanti metri, è costata tante e tante migliaia di lire. Ma lungi da noi questi calcoli gretti e meschini: quello che mi conforta in questo tristo periodo di scoraggiamento è che nel cuore della nuova generazione non sono spenti i sacri entusiasmi del risorgimento».
   Continuano qua e là le cronache letterarie di Leonardo da Riva, (era un nome che turbinava fin da allora


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nella mente del Ragazzo questo di Leonardo) che giudica e manda Rovetta, Carducci, Prévost, con molto garbo, nonchè Mantegazza, e altri autori. A proposito di libri visti annunciati nei giornali veri e specialmente di un libro del Chiala su Giacomo Dina, dice: «Ohimè! son passati i tempi in cui gli storici erano letterati e scrivevano i fasti dei popoli in tanti capolavori! Meno male che ci hanno dato in cambio la critica storica!».
   Nell'altra rivista Il Giglio, Papini sebbene non fosse più il direttore, vi tenne la maggior parte letteraria. Merita di rileggere qui: il brano di supposta conferenza che egli finge di fare sul Cid: un racconto Il Problema: e una poesia in versi barbari Dopo una pioggia d'estate, che non sono le solite ragazzate letterarie dei primi parti poetici.
   Ma c'è tanta roba lì dentro del Ragazzo e nell'altra rivista Sapientia che è impossibile segnalarla tutta anche così alla svelta. C'è il Novo Faust, una scena drammatica in cui Mefistofele, divenuto agricoltore, chiede all'Uomo non più l'anima ma il corpo per ingrassare le zucche. C'è il frammento di un poema, quello che comincia:

   ... Io canterò di non calcate arene,

   e finisce:

   ...Ma
non d'impudichi amori e non d'infami
viltà il mio verso s'ornerà siccome
lo stil moderno oggi comporta
   ... dal mio petto egli proromperà libero e forte.

   In Sapientia nei mesi estivi, in mancanza del Serpente di Mare, c'erano le inchieste su domande peregrine come queste:


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   «Qual'è l'animale più grosso? .quale il più utile? Chi è il più intelligente: il cane o il cavallo?» E il giornale fu precursore di ben più grossi confratelli che nei mesi di solleone fecero poi, e in tempi non tanto lontani, i referendum sulle mosche, sull'acqua gelata, ecc. E i due (direttori, redattori, tipografi, giornalai) rispondevano sotto vari nomi.
   Ma già in Sapientia la collaborazione di Papini diventa più rada: il Ragazzo provava fremiti di ribellione: ciò che era nascosto voleva venire alla luce. Il gioco alla letteratura cominciava a irritarlo, con la sua banale volgarità latte e miele. La sua aggressività verso mediocri coetanei si manifestava in forme di fine e feroce ironia: è perduto un poemetto erocomoico in bellissime ottave fatto per un maestrino del Cantone dei Grigioni che era venuto e fare un viaggetto d'istruzione a Firenze, un bonario tipo di filisteo innocuo e che non meritava tanta aggressione. Il poemetto fu declamato ad alta voce, dal Ragazzo e dal suo compagno, presente l'allibito svizzero-italiano: esso era una pittura e una satira a fondo di tutte le debolezze borghesi del poveretto, dei suoi entusiasmi democratici confederali elvetici che a noi seccavano non poco, e dei suoi perversi gusti letterari e filosofici. Finiva così:

   «O Barbagianni e Voi, Oche, piangete:
«che ci vorranno ancor forse mill'anni,
«Pria che un b...o simil rivedrete.

   Questo poemetto è per Papini e per il suo collaboratore uno dei rimorsi più grandi della loro vita: e se l'onesto maestro, là, tra i suoi monti, nella quiete della sua casa allietata da una buona moglie e da molti figlioli (perch'io credo certamente ch'egli sia ancora là, vivo e verde), leggerà queste righe accetti il rimpianto che io, a nome anche della generosa anima di Giovanni


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Papini, gli manifesto per le beffe che il terribile Ragazzo gli fece in quel giorno lontano.
   Un altro che studiava disegno e che poi ha fatto il pittore, un ragazzo fiorentino, venne da lui una volta «libecciato» fieramente. Nell'ira egli tracciò, un'ora dopo, una caricatura a colori di Papini, brutto, zannuto, giallo, caricatura pungentissima e meravigliosa. Perduta anch'essa. Nessuna vendetta seppe prendersi invece un altro, non fiorentino, figliolo d'un capitano a riposo e a cui il Ragazzo cominciò una volta a rinfacciare la vita randagia, l'odore di camere ammobiliate che pareva si sprigionasse da lui e la provvisorietà della vita impiegatizia a contrasto con la stabilità d'una data solenne: il Ventisette d'ogni mese.
   Ma ormai il Ragazzo stava scomparendo: ma ancora una fiamma della sua fanciullesca gioia di giocare alla letteratura si accese in un'occasione che riguardava da vicino il suo compagno.

   Il Ragazzo era ormai quasi formidabile in Letteratura spagnola: e i libri di biblioteca non avevano segreti per lui. Da signore liberale, consigliò nel 1898 al compagno e scolaro di occuparsi della Letteratura Portoghese e di scrivere a Sonzogno, proponendo un volumetto nella Biblioteca del Popolo a 15 centesimi. Così fu: e nelle vacanze tra 4a e 5a ginnasiale, l'altro ragazzo fu intento a compilare quel Pequeno livro de leitura portugueza, che è il N. 275 di quella raccolta, non senza sua grande meraviglia di trovarsi così presto autore stampato e non più giornalista clandestino. Egli crede di fare onore al compagno-maestro facendogli stendere le due righe di prefazione che, sebbene non ne portino la firma, sono proprio opera di Papini. E questi fece di più: scrisse sulla Gazzetta del Popolo della Domenica di Torino un articolo sulla Letteratura Portoghese in Italia che è utile anche oggi e che ha


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una sorprendente esattezza di citazioni e d'informazioni bibliografiche. Esso è forse il primo articolo stampato di lui: dico forse, perchè in alcuni numeri unici studenteschi usciti in diverse occasioni in Firenze, vi furono scritti di lui e non ricordo se qualcuno di questi sia anteriore all'articolo della Gazzetta.
   L'erudito, che era alla vigilia della sua impetuosa rivelazione poetica e filosofica, scriveva con calma di uomo maturo e posato la sua recensione in favor dell'amico che chiamava «il Signor E. Allodoli». L'articolo fu r pubblicato però molto molto tardi: nel febbraio del 1899.
   Cominciava:
   «La letteratura portoghese, come in genere, tutte le altre straniere, non ebbe in Italia cultori amorosi e costanti. Opere complessive, come largamente ne posseggono Francia e Germania, non esistono presso di noi, e chi voglia giovarsi di libri italiani, pur per gettare un solo sguardo sulla letteratura lusitana, deve ricorrere all'antiquato sunto del Biondelli (1840) o allo scorretto cenno che in appendice alla scorrettissima Letteratura spagnola pose il Cappelletti (Milano, Hoepli, 1882). Opere complete come, ad esempio, quelle del Denis e del Loison in Francia, del Diez e Braga-Michaelis in Germania, non ne possediamo».
   Proseguiva dicendo che solo Camoens e soli i Lusiadi erano conosciuti in Italia: parlava delle varie traduzioni: dei vari studi storici e critici intorno all'Omero Portoghese. E delle diverse versioni dava la palma a quella del Bellotti. Citava le poche traduzioni da altri poeti portoghesi, per opera del Canini, del Bonetti e del Tesa. E dopo aver parlato del Canzoniere portoghese della Vaticana pubblicato diplomaticamente dal Monaci, veniva a discorrere del volumetto di E. Allodoli, notando che la sua scelta poteva estendersi anche ad Almeida Jarrett e a J. de Deus, ma che,


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anche così com'era, dato il suo mite prezzo (15 centesimi) esso rappresentava una vera utile divulgazione popolare della letteratura portoghese in Italia.

   Dal 1899 al 1908, c'è una crisi profonda nella formazione papiniana: ed egli rinuncia del tutto a quelle forme di spensieratezza letteraria che gli facevano passare il tempo nelle chiassate librarie-giornalistiche-editoriali manoscritte. La sua solitudine prende altri aspetti: si colora del riflesso di altri su cui egli imprime una sua volontà. (E' da leggere a questo punto il cap. IX dell'Uomo Finito: Gli Altri). Attraverso prove e controprove si va formando intorno a lui quel «gruppo di giovini che erano desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superiore vita intellettuale». Il Ragazzo, dopo il 1898, scompare gradatamente: per cinque anni nasce e si matura Gianfalco, e il 4 gennaio 1903 esce il 1° numero del Leonardo. «Non si volge chi a stella è fisso».


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